Raffaella Formenti (Brescia 1955, studi scientifici e Accademia di Brera) scardina l’esito finale di ogni messaggio pubblicitario e lo dirotta a campo di colore. Indaga sulla comunicazione ridotta a rumore visivo, trasformando il cartaceo in concrezioni, micro sculture o invasive macro installazioni. La sua tastiera espressiva comprende differenti media e materiali: la carta, il web, la foto, il video, la performance. Costante nel suo lavoro è il riferimento alla Rete, da cui attinge le terminologie e ne fa parodie cartacee che restituiscono peso e consistenza sensoriale alle entità virtuali in cui ci resettiamo.
Alcune sue opere (tra cui la Torre Informatica del ’92, selezionata da Lea Vergine per una mostra) sono da tempo nella collezione ANS al Museo MART di Rovereto, esposte in occasione di varie mostre e al MART stesso, tra cui La Parola nell’Arte.
Formenti è di poche parole, ma ne scrive nel web e in libri d’artista, tra cui Lettere dal bordo di un monitor, della Collana Memorie d’Artista, edita dalla Galleria Peccolo. “Abolendo la dicotomia tra pittura e supporto, spiegazzo il reale senza spiegarlo, anzi, ne moltiplico la superficie confusionale facendo sì che nemmeno i frattali la possano commensurare.” La si incontra in rete: raffo.nita@tin.it http://raffo-mostre.blogspot.it/
Raffaella Formenti (Brescia 1955, scientific studies and Accademia di Brera) disrupts the final results of any advertising message, or derails it in a color field. She investigates communication reduced to visual noise, transforming paper into concretions, micro-sculptures or invasive macro-installations. Here expressive range includes different media and materials: paper, the web, photography, video, performance. One constant in her work is the reference to the web from which to draw terminologies and make paper parodies that restore weight and sensory consistency to the virtual entities in which we reset ourselves.Alcune sue opere (tra cui la Torre Informatica del ’92, selezionata da Lea Vergine per una mostra) sono da tempo nella collezione ANS al Museo MART di Rovereto, esposte in occasione di varie mostre e al MART stesso, tra cui La Parola nell’Arte.
Formenti è di poche parole, ma ne scrive nel web e in libri d’artista, tra cui Lettere dal bordo di un monitor, della Collana Memorie d’Artista, edita dalla Galleria Peccolo. “Abolendo la dicotomia tra pittura e supporto, spiegazzo il reale senza spiegarlo, anzi, ne moltiplico la superficie confusionale facendo sì che nemmeno i frattali la possano commensurare.” La si incontra in rete: raffo.nita@tin.it http://raffo-mostre.blogspot.it/
Some of her works (including the Torre Informatica in 1992, selected by Lea Vergine for an exhibition) are included in the ANS collection at the MART museum in Rovereto, shown in various exhibitions and at the MART itself, including La Parola nell’Arte.
Formenti is a woman of few words, but she writes on the web and in artist’s books, including Lettere dal bordo di un monitor, in the Memorie d’Artista series published by Galleria Peccolo. “Abolishing the dichotomy between painting and surface, I tangle the real without unraveling it, in fact I multiply its confusional surface, so that not even fractals can convey its proportions.” She can be found on the web: raffo.nita@tin.it http://raffo-mostre.blogspot.it/
INTERVISTA IN CATALOGO
Federico Sardella
Scardinare sensi
Una conversazione con
Raffaella Formenti sui suoi frammenti di magma cromatici
Federico Sardella: Visto
il titolo della mostra che questa pubblicazione accompagna, vorrei iniziare
parlando con te di coordinate spaziali e del modo in cui ti muovi, fra attività
interna, in studio, e rapporto con l’esterno, il mondo ma anche il WEB.
Raffaella Formenti: Che
N E S O nasce da una constatazione di perdita
generale delle coordinate di appartenenza, per cui può essere molto difficile
sentirsi rassicurati o anche solo intraprendere un cammino che mantenga la sua
rotta per l’intero percorso.
I vecchi riferimenti
geografici sono venuti meno o sono stati annullati, nel modo di muoversi
fisicamente e nello spazio virtuale. Quando ti sposti da un punto A ad un punto
B, incontri sempre rotatorie, o una serie di giri obbligatori, velocissimi, e
se non hai ben chiaro dove tu stai andando, ti disorientano. Tutti siamo
rotanti attorno ad un perno individuale, eppure per tutti, quantomeno sulla
carta, quello è il Nord, quello il Sud, quello l’Est e quello l’Ovest; è grazie
a qualche accordo circa le coordinate esterne che abbiamo la possibilità di
essere in equilibrio con noi stessi e di comunicare con gli altri, dopo tutto.
Per me è difficile trovare una geografia di appartenenza che corrisponda
propriamente ai punti cardine della nostra cultura così come ci sono stati
raccontati. Ci sono geografie imposte, dettate da questioni di sopravvivenza
nella società, che riguardano il dare un minimo di struttura, la cui assenza
produrrebbe il caos totale. Però allo stesso tempo ognuno di noi è per sua
fortuna permeato da una geografia individuale, che non ha a che fare con la
fisicità della bussola.
F.S.: Ognuno,
potenzialmente, ha una bussola tarata su se stesso, certi ci lavorano, altri la
manomettono, altri ancora ne ignorano l’esistenza… poi a volte trovi qualcuno
consapevole come te…
R.F.: Chi parla la tua
stessa lingua di ricerca, e completa o arricchisce il tuo pensiero, non
necessariamente è chi condivide la tua stessa realtà oggettiva. Tutti abbiamo
sotto gli occhi gli elementi per costruire e completare il puzzle del quale
siamo parte, ma non sempre riusciamo ad individuarli. Alcuni, non li
individueremo se non condividendo le proprie riflessioni, nel mio caso rese
tangibili nell’arte. La società impone un allentamento della propria geografia
individuale per poter sopravvivere, ma se accetti di metterti in gioco, non sei
più così facilmente circoscrivibile in un preciso luogo. Poi, chiaramente,
ognuno ha il proprio concetto di radici.
F.S.: Quali sono le tue
radici?
R.F.: In questo momento
sono un po’ dislocate, anche perché non riesco ancora a fare pace con la mia
città (Brescia, ndr), dalla
quale non posso esimermi dal partire e tornarvi. Il WEB, devo dire, mi consente
di sentirmi geograficamente più stanziale…
F.S.: Forse perché le tue radici sono ormai tentacolari e, seppur radicata al tuo luogo d’origine, con il tuo lavoro e il tuo blog hai raggiunto i luoghi più vari, fisicamente e virtualmente.
R.F.: Il mio nomadismo
interno sollecita maggiormente la mia mente e non smuove quanto vorrei il mio
immobilismo fisico. Sono stata per lungo periodo divoratrice di libri
stanziale, viaggiando solo di testa… In ogni caso, quel che più mi interessa di
un viaggio è la geografia umana, che vince sempre sul paesaggio.
F.S.: La tua pagina social in rete è un luogo, un contenitore ricco di
informazioni sul tuo lavoro e sul tuo percorso artistico. Al suo interno si ha
la possibilità di accedere a molteplici livelli ed è ricco di un gran numero di
testi, immagini e informazioni, condivise con generosità… Può essere
considerato anche un prolungamento del tuo lavoro, o esso stesso lavoro?
R.F.: Per me ne fa
parte, è aprire le porte dello studio. Lo scambio di ciò che si è e di ciò che
si sa, ammesso che possa interessare a qualcuno, serve prima di tutto a me, per
fare e per darmi chiarezza. Nel momento in cui metti su pagina o a monitor una
qualsiasi cosa, prima di tutto fai i conti con te stesso, e condividere è
vivere nello sguardo dell’altro. Io non sono certa di dire cose che abbiano
necessariamente senso anche per altri, però se qualcuno vi trova un senso è
bello che possa nutrirsene, così come io mi nutro di esperienze altrui,
filtrando ciò che vedo e ciò che accade, in una condizione di ascolto.
F.S.: Quando pubblichi
l’immagine di un lavoro ho come l’impressione che questo tuo gesto corrisponda
anche ad una sorta di desiderio di archiviazione dello stesso. Un modo come un
altro per allontanartene, per isolarlo o storicizzarlo, per salvaguardarlo
infine dal diventare parte di altri lavori o di altre installazioni.
R.F.: Non è raro che
questo accada. Le mie forme non sempre sono definitive. Come i miei recenti
lavori della serie Wikebab_el,
ad esempio, che comprendono anche nel titolo più termini associati: Wikipedia, quindi un archiviare democratico che avviene
dal basso, il Kebab, un
panino in cui vengono messi in quantità ingredienti di cui non sai bene la
specificità, destinati in qualche modo a strabordare vista l’irrazionale forma
del contenitore, e Babele.
Sono nati anche con un rimando alle Torri informatiche degli anni passati, visto l’uso di un supporto
analogo, le scatole da ortofrutta, alle quali in questo caso levo le sponde,
togliendogli così la possibilità di contenere in modo convenzionale, ma
consentendogli di trattenere dei frammenti, in parte di lavori più vecchi,
rimasti non conclusi o non risolti.
F.S.: Il titolo dice
molto di questa serie di opere e del loro assetto strabordante. Al loro
interno, fra i molti ingredienti, si può percepire un accordo e una possibile
struttura, o gerarchia. Ma a ben guardare, questa possibilità svanisce presto,
vista l’impossibilità di trovare un appiglio o di isolare un frammento.
R.F.: Nonostante la sua
esiguità, il supporto isola degli elementi per renderli leggibili, con tutte le
difficoltà del caso, visto che questi lavori raccolgono tracimamenti del mio
pensiero che si sono arresi all’impossibilità di essere imbrigliati.
F.S.: Un tentativo
iniziale di riordino è stato contemplato da parte tua, vista la scelta della
scatola come fondo? Oppure questa scelta di usare un contenitore esplicitamente
incontinente è conferma dell’impossibilità di contenerti?
R.F.: Anche questo
lavoro è un Che N E S O… Wikebab_el conferma infatti l’impossibilità di dare un ordine univoco agli elementi e
offre un nutrimento entro il quale ognuno può eleggere gli ingredienti favoriti
che, anche visivamente, catturino maggiormente l’attenzione, sino ad offrire la
possibilità di individuare un bandolo per iniziare un viaggio al suo interno.
Invece il magma dei Wikiscraps
non cerca sponde e si allontana da qualunque precisa formalizzazione e
geografia certa. La difficoltà consiste poi nel trovare l’attimo in cui fermarmi
e riporre il pennello, in questo mio sfuggire dal definire a tutti i costi una
forma, che preferisco simile ad una germinazione organico-molecolare in
divenire.
F.S.: Si tratta di opere
aperte, dunque? O di lavori perennemente in corso?
R.F.: Si avverte che
adoro i cantieri? Molte persone sono infastidite dai lavori in corso, io li
trovo molto affascinanti invece. La segnaletica ha un cromatismo particolare e
riguarda luoghi dai connotati non definitivi, nei quali stanno avvenendo dei
cambiamenti. Le reti rosse utilizzate per delimitare i cantieri sono come
tracce di pastello nella geografia, che corrispondono fortemente al nostro
adesso. Momenti di pausa dello guardo, non hanno la rigidità di un edificio e
contengono sempre degli accidenti o degli incidenti che le trasformano. Spesso
invece di essere transitorie stanno lì per anni e sbiadiscono al sole.
F.S.: Un po’ come certe
tue opere, no?
R.F.: Non mettendole in
pieno sole, le mie opere non sbiadiscono!
Ma sicuramente sono accadimenti di mutazione come i cantieri. A volte ho
la presunzione di pensare che i miei lavori equivalgano ad appunti filosofici.
Mi interessa anche l’aspetto formale del pezzo, ma soprattutto che i lavori
siano letti come spunti filosofici, per quello che è il mio modo di riflettere,
pur senza grande rigore, e dove tutto è stravolgibile, non definibile e non
definitivo, teso a comunicare il mio scorrere in continua riscrittura.
F.S.: Le tue opere sono,
a questo punto, appunti di dubbio?
R.F.: Sono frammenti di
magma cromatici dove il colore è libero nello spazio. La mia tela non è un
luogo circoscritto e le opere sono momenti di pittura liberati da qualsiasi
supporto. E questa è una certezza, più che un dubbio! Anche se il dubbio è la
base della riflessione da cui nasce il mio fare.
F.S.: La tua tavolozza è
il mondo. I tuoi tubetti di colore sono tutto quanto di cartaceo ha a che fare
con pubblicità, comunicazione, confezioni ed imballaggio
Che cosa ti interessa
maggiormente degli scarti?
R.F.: Non mi piace l’idea di generare qualcosa di riferibile solo a me, mi piace l’idea invece di trasformare ciò che è già appartenuto allo sguardo degli altri. Per questo è inevitabile il mio portarmi il mondo in studio, o la certezza che ovunque vada posso trovare materiali per lavorare. Ricolloco e decontestualizzo. Il modo di vivere attuale ha settorizzato tutto quanto, togliendo l’originario senso di molte categorie di mestieri. Fare l’artista oggi per molti è una professione come un’altra, e non ha più a che fare con l’alchimia della trasformazione dei materiali in sé, come luogo di viaggio e dialogo, siano essi colore, metallo o carta.
F.S.: Ti consideri
un’alchimista di oggi?
R.F.: Mi piace come
immagine. Faccio un uso spostato dei materiali. Lo stesso, con le parole. Mi
piace scardinarle e lo faccio perché non mi basta che abbiano un solo
significato. E anche se una determinata parola ha già tre significati
dettagliati nel vocabolario, non mi bastano e mi piace vedercene un quarto, un
quinto, un sesto… sino ad arrivare anche al surreale pur di aprire i sensi.
Aggiungo una chiave in più al mazzo, complicandola e ampliandola. L’alchimista
è anche questo?
F.S.: Come te,
l’alchimista connette gli elementi.
R.F.: Nel momento in cui
l’arte parla solo di se stessa e si riferisce solo a sé diventa un
metalinguaggio che si rantola addosso, una sorta di parco giochi a parte,
rispetto alla vita. Trovo interessante aprire porte tra i diversi ambiti,
scienza, sociologia,…, per non impoverire o ghettizzare il linguaggio, per
connettermi con realtà differenti da quella specifica che si occupa d’arte. I
materiali che scelgo sono legati alla comunicazione e ai gesti delle persone
qualsiasi, cose semplici che utilizzo per dire qualcosa di più complesso,
dotato di più livelli di lettura. Connetto, ma al tempo stesso scombino: mi si
immagina passare il tempo a piegare come una folle. In realtà non potrei
ripetere gli stessi gesti più di tanto se non per inseguire un preciso progetto
che ho in testa e che solo così può prender forma. Ogni volta trovo in questo
gesto del piegare la bellezza di vedere qualcosa cambiare, e il disegno grafico
del manifesto, concepito con altro intento, viene scombinato da questo mio
agire, in fondo non così diverso dai certi gesti ripetitivi propri anche del
pittore più rigoroso… Quando piego dipingo: mescolo i colori, valuto gli
ingombri, accosto le forme, in uno scorrere di appunti consecutivi che
sedimentano. Quando piego non è il mio gesto che attraversa il foglio, ma è il
foglio che raccoglie il mio gesto, lo trattiene e lo prosegue.
Federico
Sardella
Unhinging
meanings
A
conversation with Raffaella Formenti about her chromatic magmatic fragments
Federico
Sardella: Given the title of the exhibition for which this catalogue has been
produced, I’d like to start by talking with you about spatial coordinates and
the way you move between internal activities, in the studio, and in relation to
the outside, the world, and also the web.
Raffaella
Formenti: Che N E S O comes from an awareness of a general
loss of coordinates of belonging, making it very hard to feel reassured or even
to simply take a path and stay its whole distance. The old geographical
reference points have lost their efficacy or been canceled out, in the way of
moving physically and in virtual space. When you go from a point A to a point
B, you always encounter roundabouts, or a series of obligatory, very quick
turns, and if you are not certain about where you are headed they can disorient
you. We are all turning around an individual pivot, yet for everyone – at least
on paper – that is North, that is East, South, or West; it is thanks to some
agreement about the outer coordinates that we have the possibility of staying
in balance with ourselves and of communicating with others, after all. For me
it is hard to find a geography of belonging that corresponds exactly to the
cardinal points of our culture just as we have formulated them for ourselves. There
are imposed geographies dictated by questions of survival in society, that have
to do with providing a minimum of structure, without which there would be total
chaos. But at the same time each of us is fortunately permeated by his or her individual
geography, that has nothing to do with the physical compass.
F.S.: Each of
us, potentially, has a compass calibrated to ourselves. Some work on it, others
tamper with it, others still know nothing of its existence … then at times you
find someone who is aware, like you…
R.F.: Whoever
speaks your same language of research, and completes or enriches your thinking,
is not necessarily someone who shares your same objective reality. We all have
the elements before our eyes to construct and complete the puzzle of which we
are a part, but we are not always able to recognize them. Some of them cannot
be recognized unless we share our thoughts, made tangible in my case through
art. Society imposes a loosening of one’s individual geography to be able to
survive, but if you agree to put yourself on the line, you are no longer so
easy to limit to a precise place. And then, of course, we all have our own
concept of roots.
F.S.: What
are your roots?
R.F.: In this
moment they’re a bit scattered, also because I still can’t seem to make peace
with my city (Brescia, ed.), though I cannot help but depart from there and
return there. The web, I must say, let’s me feel more geographically settled…
F.S.: Maybe because your roots have become tentacles, at this point, and though you are rooted to your place of origin, with your work and your blog you have reached a wide range of places, physically and virtually.
R.F.: My
inner nomadism stimulates my mind more and it does not disrupt my physical
stillness as much as I would like. For a long period I have been a devourer of
books, in one place, traveling on in my head… In any case, what interests me
most in a journey is the human geography, which always wins over the landscape.
F.S.: Your
social network page online is a place, a variegated container of information
about your work and your artistic path. It offers access to multiple levels and
contains many texts, images and information, which you generously share… Can it
also be considered an extension of your work, or a work in its own right?
R.F.: For me
it is part of the work, a way of opening the doors of the studio. The sharing
of what I am and what I know, if it may be of interest to anyone, is first of
all useful for me, to make and to grant myself clarity. In the moment when you
put something, anything on the page or on the monitor, first of all you come to
terms with yourself, and sharing meanings living in the gaze of the other. I am
not sure that I say things that necessarily have meaning for others, but if
someone finds a meaning it is nice that they can feed on it, just as I feed on
the experiences of others, filtering what I see and what happens, in a
condition of listening.
F.S.: When
you post the image of a work I have the impression that this gesture also
corresponds to a sort of desire to file it away. A way of taking a distance
from it, of isolating or historicizing it, to safeguard it until it becomes
part of other works or other installations.
R.F.: That
happens quite frequently. My forms are not always definitive. Like my recent
works in the Wikebab_el
series, for example, which include multiple associated terms, also in the title:
Wikipedia, therefore
a democratic archiving from the bottom up, Kebab, a sandwich containing quantities of ingredients
whose specifics are not well known, destined to somehow overflow given the
irrational form of the container, and Babel. The works also make reference to the “tower”
computers of the past, though the use of a similar support, fruit crates from
which I remove the sides so they can no longer contain things in a conventional
way, but can retain fragments, partly of older works left incomplete or unresolved.
F.S.: The
title says a lot about this series of works and their overflowing arrangement. Inside
them, among the many ingredients, we can perceive an agreement and a possible
structure, or hierarchy. But upon closer examination, this possibility soon
vanishes, given the impossibility of finding a foothold or isolating a fragment.
R.F.: In
spite of its flimsiness the support isolates the elements to make them legible,
though with all the difficulties of the situation, since these works gather
overflows of my thought that have surrendered to the impossibility of being
bridled.
F.S.: Were
you considering an initial attempt to put things back in order, given the
choice of the box as backdrop? Or is this choice of using an explicitly
“incontinent” container confirmation of the impossibility of containing you?
R.F.: This
work too is a Che N E S O… Wikebab_el
confirms the impossibility of assigning a single order to the elements, and
offers nourishment inside which each person can select favorite ingredients
that, also in visual terms, catch their attention most, to the point of
offering the possibility of finding a key to begin a voyage inside. Instead,
the magma of the Wikiscraps does not seek channels and eludes any precise formalization or
certain geography. So the difficulty lies in finding the instant in which to
stop myself and put down the brush, in this escape of mine from defining a form
at all costs, which I would prefer to resemble an organic-molecular germination
in progress.
F.S.: So
these are open works, then? Or eternally in progress?
R.F.: You can
tell that I adore worksites? Many people are irritated by works in progress,
but I think they are fascinating. The signage has a particular color scheme and
has to do with places of with indefinite features, in which changes are taking
place. The red nets they use to fence off construction sites are like crayon
traces in geography, which closely correspond to our now. Pauses of the gaze,
without the rigidity of a building, always containing accidents or incidents
that transform them. Often instead of being transient they stay there for
years, fading in the sun.
F.S.: A bit
like some of your works, no?
R.F.: If you
don’t put them in direct sunlight my works don’t fade! But they are definitely events
of mutation, like worksites. At times I am presumptuous enough to think that my
works are like philosophical notes. I am also interested in the formal aspect
of the piece, but above all I want the works to be read as philosophical input,
as far as my way of reflecting is concerned, though without great rigor, and
where everything can be disrupted, not definable and not definite, aimed at
communicating my flow in continuous rewriting.
F.S.: So at
this point your works are a way of jotting down doubts?
R.F.: They
are chromatic magma fragments where color is free in space. My canvas is not a
circumscribed place and the works of moments of painting liberated from any
surface. And this is a certainty, rather than a doubt! Though doubt does lie at
the base of the reflections that lead to my work.
F.S.: Your
palette is the world. Your paint tubes are anything on paper that has to do
with advertising, communication, packaging and packing. What interests you most
about these scraps?
R.F.: I don’t like the idea of generating something that refers only to me. Instead, I like the idea of transforming what has already belonged to the gaze of others. This is why it is inevitable for me to bring the world into my studio, or to be sure that wherever I go I can find materials for working. I reposition and decontextualize. The present way of life has put everything into sectors, removing the original meaning of many categories of endeavor. For many people being an artist today is a profession like any other, and it no longer has to do with the alchemy of transformation of materials itself, as a place of travel and dialogue, whether the materials are paint, metal or paper.
F.S.: Do you consider
yourself a modern-day alchemist?
R.F.: I like
the image. I make shifted use of materials. The same is true of words. I like
to unhinge them and I do it because it is not enough for me if they have just
one meaning. And even if a certain word already has three detailed dictionary
definitions, I am not satisfied and I want to see a fourth, a fifth, a sixth… to
the point of reaching the surreal, as long as it opens the senses. Adding
another key to the set, complicating it and expanding it. Is that also alchemy?
F.S.: Like
you, the alchemist connects the elements.
R.F.: When
art talks only about itself and refers only to itself, it becomes a
meta-language that wheezes to itself, a sort of separate playground with
respect to life. I think it is interesting to open doors between different
spheres, science, sociology… to not impoverish or isolate the language in a
ghetto, to connect myself with different realities from the specific one that
focuses on art. The materials I choose are linked to communication and the
gestures of ordinary people, simple things I use to say something more complex,
with multiple levels of interpretation. I connect, but at the same time I take
apart: just imagine me spending time folding things, like a madwoman. Actually
I couldn’t repeat the same gestures for very long were it not in pursuit of a precise
project I have in mind, that can only take form in that way. Each time, in this
gesture of folding I find the beauty of seeing something change, and the
graphic design of the poster, created with a different intention, is disrupted
by my action, which in the end is not so different from certain repetitive
gestures that belong even to the most rigorous painters… When I fold I paint: I
mix the colors, I gauge the bulk, I juxtapose forms, in a flow of consecutive
notations that settle in layers. When I fold it is not my gesture that crosses
the paper, it is the paper that follows my gesture, detains and continues it.
Paolo BOLPAGNI
Arte e dirottamenti
Raffaella Formenti, tra ordine e caos
Raffaella Formenti è un’artista assai complessa. È intertestuale, sfaccettata; insieme cólta e semplice, estremamente comunicativa ma al contempo inafferrabile. Una persona che crea, e che riflette; che si chiede in continuazione quale sia il senso di ciò che sta facendo, eppure non esce afasica e paralizzata – com’è capitato e càpita a molti altri – da questo incessante interrogarsi. Il suo pensiero può sembrare talvolta contraddittorio; ma è una contraddittorietà frutto di assoluta coerenza: è la presa d’atto del “confine”, dell’oscillazione costante insita nella nostra condizione di esemplari dell’homo sapiens sapiens.
Le opere di Raffaella Formenti vivono nella loro presenza alternante tra caos e ordine, tra la ricerca di coordinate e l’ammissione dell’impossibilità di trovarne. Il suo movente, ovvero ciò che la sospinge a essere artista, afferma e nega se stesso nel medesimo istante: il desiderio di mandare messaggi e di restare nella memoria degli altri confligge con una sorta di aspirazione al nascondimento, con un autocritico ritrarsi da ogni esaltazione del soggetto. Anche il rifiuto di una tecnica esecutiva eccessivamente “esoterica”, ipersviluppata e trascendentale, nonché l’utilizzo di un materiale “minimo” appartenente alla realtà quotidiana (soprattutto manifesti pubblicitari e pieghevoli promozionali), rispondono all’intenzione di superare il vallo che separa l’uomo comune dall’artista, di avvicinarsi agli altri e forse persino mischiarsi nella folla, pur senza rinunciare a un punto di vista “eccentrico” (nel senso etimologico della parola).
Il paradosso che caratterizza Raffaella Formenti è il medesimo che emerge volendo scrivere di lei. Socraticamente, tale atto sarebbe quasi superfluo; di certo è limitante, perché il suo lavoro è così ricco – di contenuti, di significati, d’implicazioni infinite – da rischiare di condurre, di rispecchiamento in rispecchiamento, verso l’imponderabilità e l’epoché. Come in un racconto di Borges, come in un labirinto che confina con il perdersi della mente, con l’arrendersi di fronte all’imprendibilità.
Eppure è necessario occuparsi di lei: l’inclassificabile per eccellenza, l’inincasellabile Formenti deve essere fissata in una definizione; che sarà imperfetta, anzi subito inadeguata, ma che serve per far percepire l’importanza della sua posizione, che altrimenti rischia di sfuggire. E tutto sembrerebbe soltanto talmente giocoso, colorato, spontaneo! Sotto questa scorza quasi ludica ci sono consapevolezze vertiginose, c’è filosofia, nel senso più proprio del termine. Anche i divertissements e i calembours – così frequenti in lei – diventano strumenti conoscitivi, chiavi di comprensione della realtà; o, meglio, di comprensione della sua incomprensibilità.
In fondo, l’anima più autentica di Raffaella Formenti la porta verso l’arte concettuale, intendendo tale locuzione in prospettiva metatemporale, non riferita a un determinato periodo storico o àmbito. Studiosi statunitensi, persi nella spesso oziosa questione della lettura del contemporaneo nei termini di modernismo vs antimodernismo, non saprebbero probabilmente dove collocarla; ma siamo in Europa, e possiamo usare le parole senza timori, consci delle loro molteplici valenze e della fallibilità di ogni riduzionismo e di tutti i metodi deduttivi. Noi partiamo dall’osservazione e dell’analisi di ciò che esiste e poi ne ricaviamo, quando ne siamo capaci, un’interpretazione, una teoria, una chiave di lettura. Non viceversa.
Concettuale: significa che la tecnica realizzativa non è fine a se stessa, ma inestricabilmente connessa con il momento dell’ideazione, con la riflessione sul “linguaggio” impiegato e sulla comunicazione. Vuol dire inoltre che il contenuto elaborato dalla mente non è incidentale, estrinseco o residuale, bensì parte integrante dell’opera, la quale non si riduce al proprio farsi meccanico. E dire che le installazioni di Raffaella Formenti, le sue “piegature”, paiono quasi generarsi da sole, germogliare, pollare l’una dall’altra come per un processo automatico e inarrestabile, per una reazione di proliferazione! Invece dietro c’è una ratio. Una ratio che ingloba non pochi elementi d’irrazionalità, è vero; ma questo è eminentemente umanistico, anzi umano tout court.
Dicevamo che, piegando, Raffaella Formenti crea mondi, strutture: sia oggetti “filosofici” di piccole dimensioni, sia accumuli che invadono lo spazio. È il caso dell’installazioneChe N E S O. Quali Nord Est Sud Ovest, che dichiara a gran voce l’inconsistenza di ogni delinearsi di geografie circoscritte, dato che subito risulterebbero inattuabili, perché non condivise, non condivisibili: basti porre mente al fatto che gli atlanti utilizzati nei differenti continenti collocano il proprio al centro del planisfero: l’Europa, l’Asia, le Americhe. Insomma, non siamo d’accordo nemmeno su quale verso abbia il pianeta Terra, su come rappresentarlo convenzionalmente su un foglio. Quindi tutto diventa un magma, che non è relativistico rispetto ai valori etici, bensì alle facoltà gnoseologiche dell’uomo; di fronte ad esso i pensieri si con-fondono, e le piegature di Raffaella Formenti si moltiplicano, ampliano la superficie del mondo, la rendono ancora più frastagliata e meno leggibile (è un’anti-geografia, che dichiara la non-misurabilità della realtà, l’impossibilità di codificarla, di etichettarla, di averla sotto controllo), e poi si ergono e concretano in stalagmiti.
Mi sovviene in proposito, per analogia, quella follia lucida e organizzata che troviamo in certi finali d’atto delle opere giocose di Gioachino Rossini, quando i personaggi, dinanzi a situazioni che non riescono a padroneggiare, a «nodi avviluppati», lasciano liberamente librare nell’etere le loro menti sconcertate: e allora i campanelli suonano nella testa e i cervelli sbalorditi vanno «sossopra» e stanno «presso a naufragar».
Mi arriva anche in soccorso, sub specie metaforica, uno dei dipinti più sottili e intelligenti di Vasilij Kandinskij, ossia Fuge, Beherrschte Improvisation del 1914. Il titolo, tradotto in italiano, suona – non troppo bene – più o meno così: Fuga, improvvisazione signoreggiata. Sembra un’espressione ossimorica: la fuga è la forma musicale rigorosa per eccellenza, basata su regole certe e “matematiche”; l’improvvisazione è l’esatto opposto, lo si capisce intuitivamente. Ebbene, in questa tela, pare dirci Kandinskij, il principio della codificazione e della razionalità ordinatrice si scontra – o comunque fa i conti – con la libertà, con l’estro incoercibile e imprevedibile; tenta di dominare, di padroneggiare, d’incanalare in qualche modo l’ethos improvvisativo, ma alla fine non ci riesce davvero, e i due elementi restano contrapposti nella loro saldezza, non amalgamati.
Questa lotta avviene anche nell’arte di Raffaella Formenti, benché con premesse ed esiti differenti, e con la consapevolezza palese che essa sia perduta – o vinta, a seconda di come si considerino le cose – in partenza: le istanze della sistematizzazione e del riordino soccombono di fronte alla coscienza della multiformità caleidoscopica e dell’inintelligibilità del reale, che è meglio armata di esprit de finesse. L’intelligenza analitica e la logica, infatti, conducono paradossalmente al superamento del razionalismo classificatorio, evidenziando subito, per esempio, come l’adozione di un punto di vista unico sia opinabile: volendo scendere nel pratico, diciamo senza tema che anche soltanto l’appendere l’opera a un chiodo, con una determinata angolazione, per un verso piuttosto che per un altro, pregiudica tutte le ulteriori possibilità di osservazione e configurazione stessa dell’oggetto, che di per sé sarebbero infinite.
Ogni concrezione di carte piegate che esce dalle mani di Raffaella Formenti è una e centomila. E pure le dimensioni sono teoricamente illimitate (non sono che le mere esigenze del materiale a dire a che punto fermarsi e dire basta): nulla vieterebbe, in astratto, che queste opere si ampliassero alla stregua di mosaici fino a invadere l’universo intero, posto che i moduli QBXL da lei ideati s’incastrano a vicenda ad libitum e in unperpetuum mobile; un po’, per via di similitudine, come quando ci si perde(va) nelle biblioteche, leggendo un libro nel quale se ne cita(va) un altro, che rimanda(va) a un altro ancora, e così via. Oggi è più difficile che ciò accada, giacché sul web ogni nostra “ricerca” influenza e circoscrive quella successiva, contribuendo a creare tanti mondi separati, ognuno a immagine e somiglianza del singolo, in un solipsismo d’incomunicabilità reciproche.
Raffaella Formenti, artista concettuale, umanistica, europea, non spaventata dalla complessità, non ammutolita dalle inevitabili aporie del pensiero critico, ci riporta, metaforicamente, in queste biblioteche, ci ridona il gusto di mettere alla prova la nostra intelligenza e sensibilità, di perderci nella conoscenza che provoca e sollecita in continuazione se stessa, pur sapendo d’imbarcarsi in una sfida impossibile; ma non perdente, tutt’altro. La Storia, anzi, darà ragione a Raffaella Formenti e a quelli come lei. O almeno c’è da sperarlo.
English version
PAOLO BOLPAGNI
Art and detours
Raffaella Formenti, between order and chaos
Raffaella Formenti is a very complex artist. She is inter-textual, multi-faceted, erudite and simple, extremely communicative yet hard to grasp. A person who creates and reflects, who constantly wonders about the meaning of what she is doing, yet does not get paralyzed – as happens to many others – by this incessant questioning. Her thinking can at times seem contradictory, but that is the result of absolute consistency: the recognition of the “borderline,” the constant wavering intrinsic to our condition as specimens of Homo sapiens sapiens.
Raffaella Formenti’s works exist in their alternating presence between chaos and order, pursuit of coordinates and the admission of the impossibility of finding them. Her motivation, or what urges her to be an artist, asserts and denies itself at the same time: the desire to send messages and remain in the memory of others conflicts with a sort of aspiration of concealment, a self-critical retreat from an exaltation of the subject. The rejection of an excessively “esoteric” production technique, hyperdeveloped and transcendental, and the use of a “minimum” material belonging to everyday reality (mostly advertising posters and promotional brochures), also correspond to the intention of bridging the gap that separates ordinary people from artists, approaching the others and maybe even getting lost in the crowd, though without sacrificing an “eccentric” viewpoint (in the etymological sense of the term).
The paradox of Raffaella Formenti is the same one that emerges when one attempts to write about her. In Socratic terms, that act would be almost superfluous; of course it is limiting, because her work is so rich – in content, meaning, infinite implications – that it would run the risk of leading, from reflection to reflection, towards the imponderable and the epoché. As in a story by Borges, as in a labyrinth that borders on loss of the mind, on surrender in the face of what cannot be grasped.
Yet it is necessary to write about her: impossible to classify par excellence, Formenti ought to be fixed in a definition; which will be imperfect, in fact immediately inadequate, but can serve to make the importance of her position perceptible, which would otherwise run the risk of escaping us. Then everything would seem to be simply playful, colorful, spontaneous! Beneath this almost playful surface lie dizzying realizations, philosophy in the most proper sense of the term. Even the divertissements and calembours – so frequent in her work – become cognitive tools, keys for a comprehension of reality; or, more precisely, comprehension of its incomprehensibility.
Basically, the innermost spirit of Raffaella Formenti leads her towards conceptual art, using that term in a meta-temporal perspective, not linked to a given historical period or circle. American scholars lost in the often idle question of interpretation of the contemporary in terms of modernism vs antimodernism would probably not know where to put her; but we are in Europe, and we can use the words without fear, aware of their multiple meanings and the fallibility of any reductionism and all deductive methods. We start with observation and analysis of what exists and then we derive, when we are able, an interpretation, a theory, a key. Not vice versa.
“Conceptual” means that the technique of making is not an end in itself, but inextricably connected to the moment of invention, with reflection on the “language” utilized and on communication. It also means that the content developed by the mind is not incidental, extrinsic or residual, but an integral part of the work, which is not reduced to its mechanical making. And to think that the installations of Raffaella Formenti, her “foldings,” seem almost to generate themselves, to sprout, to spring one from the next as if in an automatic and unstoppable process, a reaction of proliferation! Instead, there is aratio behind them. A ratio that incorporates not a few elements of irrationality, it is true; but that is eminently humanistic, simply human, in fact.
We were saying that by folding Raffaella Formenti creates worlds, structures: both “philosophical” objects of small size and accumulations that invade space. This is the case of the installation Che N E S O. Quali Nord Est Sud Ovest, which announces out loud the lack of consistency of any outlining of circumscribed geographies, given the fact that they would immediately turn out to be impossible to implement, because not shared, not sharable: just consider the fact that the atlases used on different continents place their own at the center of the globe: Europe, Asia, the Americas. In short, we cannot even agree on the orientation of planet Earth, on how to conventionally represent it on a sheet of paper. When everything becomes magma, which is not relativistic with respect to ethical values, but to the gnoseological faculties of man, in the face of this our thoughts are con-fused, and the folds of Raffaella Formenti multiply, expanding the surface of the world, making it even more jagged and less legible (it is an anti-geography, that states the non-measurability of reality, the impossibility of encoding it, labeling it, getting it under control), and then they rise and become concrete in stalagmites.
I am reminded, by analogy, of that lucid and organized folly we find in certain act finales of the playful operas of Gioachino Rossini, when the characters, faced with situations they cannot control, with «nodi avviluppati» (snarled knots), allow their disconcerted minds to freely soar in the aether: then bells toll in the head, and dazed brains go «sossopra» (upside-down) and are «presso a naufragar» (about to go under).
One of the most subtle and intelligent paintings of Wassily Kandinsky comes to my aid,sub specie of metaphor, namely Fuge, Beherrschte Improvisation from 1914. The title translated in English sounds – not very nicely – more or less like this: Fugue, controlled improvisation. It seems like an oxymoron: the fugue is the rigorous musical form par excellence, based on clear and “mathematical” rules; improvisation is the exact opposite, as can be intuitively understood. Kandinsky seems to be telling us, in this canvas, that the principle of encoding and ordering rationality runs up against – or in any case must come to terms with – freedom, with that flair that cannot be coerced or predicted; it tries to tame, to control, the somehow channel the improvising ethos, but in the end it truly cannot do so, and the two elements remain in opposition, solid, not amalgamated.
This battle also happens in the art of Raffaella Formenti, though with different premises and results, and with the clear awareness that it is lost – or won, depending on how you look at things – from the outset: the efforts to be systematic and to reorder things succumb in the face of knowledge of the kaleidoscopic multiplicity and unintelligibility of the real, which is better armed with esprit de finesse. Analytical intelligence and logic, in fact, paradoxically lead to the overtaking of classifying rationalism, immediately making clear – for example – how the adoption of a single viewpoint is disputable: to get down to a practical level, we need not hesitate to say that even hanging a work on a nail at a particular angle, in one direction or another, compromises all the ulterior possibilities of observation and configuration of the object, which would otherwise be infinite.
Every concretion of folded paper that emerges from the hands of Raffaella Formenti is one and one hundred thousand. Yet the dimensions are theoretically unlimited (only the mere necessities of the material indicate the point in which to stop and consider the work finished): in abstract terms, nothing would prevent these works from expanding like mosaics, to the point of invading the entire universe, given the fact that the QBXL modules she has invented interlock with each other ad libitum and in a perpetuum mobile; a bit, by way of resemblance, like when one loses (lost) one’s way in libraries, reading a book in which another book is (was) mentioned, which then leads (led) to another book, and so on. Today this rarely happens, since in the web every “search” influences and circumscribes the next one, contributing to create many separate worlds, each in the image of the individual, in a solipsism of mutual incommunicability.
Raffaella Formenti, a conceptual, humanist, European artist not afraid of complexity, not dumbfounded by the inevitable aporias of critical thought, takes us metaphorically back to those libraries, giving us back the taste for testing our intelligence and sensitivity, of getting lost in knowledge that continuously prompts and stimulates itself, while knowing she is facing an impossible challenge; but not a losing battle, anything but. History, in fact, will prove her right, and those like her. Or at least we can hope it will.
Lucio Pozzi
Nelle ombrose pieghe lucenti del tempo.
1) LE PIEGHE
Se un giorno Raffaella Formenti viene in visita, può capitare che si sia portata, infilate in una tasca interna della giacca, delle strisce di carta ritagliate da qualche pubblicità. Mentre si chiacchera, senza neanche guardare le sue mani si mettono in moto e piegano e infilano le carte una nell’altra. Questa sua motilità è divenuta spontanea, ma anche risponde ad un sistema flessibile ed aperto. A differenza di quello che succede quando si conduce un’operazione entro parametri completamente o perfino genericamente prestabiliti, per esempio intessere un tappeto, Formenti parte da una prima struttura madre e poi improvvisa e non sa dove va a finire. Risponde come un sensore al tempo e allo spazio che ha a disposizione. Irraggia come un radar tautologico la zona sensibile e mentale che le si sviluppa sotto le mani mentre fa. Come strumento si è inventata innumerevoli variazioni di un origami personalissimo con il quale costruisce cose che vanno dal piccolo ad uso mano all’immenso che occupa un’intera stanza.
La carta patinata pubblicitaria ha una consistenza che è sia rigida che flessibile e che permette di piegarla in formazioni semplici che diventano matrici di composizioni complesse. Le misure delle pieghe variano all’infinito e ogni volta conducono ad un effetto diverso. Se nella tradizione giapponese dell’origami la piegatura della carta è studiata per conseguire forme riconoscibili come la cicogna, l’orso, la casa, la maschera o il vaso, le piegature di Formenti costruiscono architetture che non rappresentano intenzionalmente immagini della realtà fenomenica. Esse si articolano nello spazio reale dell’ambiente e lo modificano con la loro presenza ineluttabile.
Anche un solo piccolo cubo con un lato aperto, formato da una striscia piegata su se stessa occupa e assorbe il posto nel quale viene posato in modo che non lo si può più ignorare dopo che lì è messo. Il suo peso di pochi grammi è trasceso dalla proporzione del suo volume di pieno e vuoto. Gli orli della forma o sono solidi o si rivelano attraverso la sovrapposizione di una piega sopra l’altra. La patinatura della superficie cartacea produce riflessi di luce opaca che cambia come si muove chi guarda l’oggetto. Questo oggetto poi, per esempio il banale cubetto di carta piegata, bisogna ricordarsi che è un oggetto che non ha significati intrinseci. Esso si irradia in mille direzioni e strati di contesti significanti che non sono nemmeno tutti enumerabili.
2) I COLORI
Le carte che Raffaella trova sono usate per pubblicità di tutti i tipi. Possono venir strappate da riviste o vengono da rimanenze dell’azienda pubblicitaria e cartellonistica Pubblix, di Brescia, città dove Formenti anche vive ed ha studio. La rigidezza delle carte varia permettendo all’artista di ottenere costruzioni vertebrate che possono perfino proiettarsi a sporgenza pensile in lunghezze eccezionali.
Le carte posseggono i colori scelti dai progettisti pubblicitari. L’artista può scegliere di usarne soltanto una per produrre un oggetto dominato dalla cromia di quel manifesto oppure può mischiarne più di una per generare colorati mosaici tridimensionali complicati.
Salvo alcune eccezioni, l’effetto cromatico non è progettato in dettaglio ma risulta dall’inevitabile fortuna combinatoria della piegatura di quel che capita sotto mano quando viene il turno di uno dei frammenti preparati. Le scelte estetiche infatti incominciano fin dall’inizio, già nella scelta del foglio e nelle proporzioni dei ritagli approntati. Una striscia larga cinque centimetri risulterà in formazioni diverse da un’altra di quindici.
Differenze significative nascono da quale frammento viene usato e a qual punto del processo creativo esso viene introdotto. Per esempio, un intero costrutto potrebbe venir composto iniziando dall’uso soltanto del lato sinistro monocromo - tanto per fare un esempio a caso diciamo sia giallo fluorescente - di tre copie di uno stesso manifesto e poi, avviata la costruzione, le ulteriori aggiunte potrebbero venir estratte invece dalla sua parte centrale affollata di grossi caratteri tipografici neri sullo stesso fondo giallo. Ne verrebbero effettuati apprezzabili salti di colore.
Formenti sceglie i colori per gusto e anche per sentirli adatti alla dimensione cercata. La sua scelta di colore è sia casuale che intenzionata. Risponde all’istinto del pittore che fa corrispondere una forma ad un colore senza perder tempo a spiegarsene la connessione. Una volta, in una galleria di Desenzano sul Garda, scelse di elaborare una immensa torre da pavimento a soffitto di gialli, rossi e neri che contrastava con il bianco istituzionale dei locali. Su di essa poi erano aggiunte piccole costruzioni satelliti di natura diversa. Alcune contengono parti che si possono muovere o sfilare, articolando coincidenze cangievoli di colore, forma e leggibilità delle parole.
3) LE PAROLE
Le associazioni che provocano le costruzioni di Raffaella Formenti non sono soltanto di natura architettonica e cromatica ma in esse hanno importanza radicale anche i fattori tipografici e letterari.
Camminare in strada con Raffaella comporta un intenso aumento della propria capacità di osservazione e connessione. Non resiste a lanciarti letture di quel che vedi. Te le sussurra o te le enuncia mentre cammini. Le banali scritte del negozio di tessuti o elettrodomestici ti vengono tagliuzzate, aggiunte, anagrammate o lette in coincidenza verticale per farne dei conglomerati di suoni e significati totalmente inattesi che le rendono di colpo interessanti. Se sei seduto al bar, sarà il passaggio del furgone con sopra la scritta dell’idraulico e della lavanderia a provocarle la perversione parolifera. La sua mente non si ferma mai. Figurarsi quando arriva ai giornali e alle riviste sature di convenzioni semiotiche l’archeologia delle quali non può non muoverti ad un disperato scetticismo ironico.
E’ nella parola, nelle lettere, nelle frasi e messaggi sovente vuoti o altisonanti che l’artista scova il tragico ed il buffo della vita. Lei attraversa l’intero sistema della comunicazione con il pettine critico del suo sguardo. La sua mente stessa è una scultopittura che perfino un cieco può percepire quando si trasforma in castelli di carta toccabili che qualcuno può leggergli a voce alta.
Le sue opere sono fragili eppure solidissime: non cascano, a volte ti ci puoi perfino appoggiare contro ma basta un fiammifero per mandarle in fumo. Questa è una delle tante ramificate contraddizioni sulle quali si fonda la sua arte – contraddizioni simboliche della nostra vita tutta. Ci costruiamo grandiosi castelli di pensiero ed azione, di erotismo e tristezza: ogni nostra vita è un universo ricchissimo di speranze e memoria ma basta un soffio di vento per cancellarla.
4) I VUOTI
Chi sa leggere l’architettura sa vedere il vuoto che si integra con il pieno, chi ascolta la musica sa trarre piacere estetico dai silenzi che si alternano ai periodi di suono. L’invenzione del collage agli inizi del ventesimo secolo innestò forme ridotte, piatte e raccolte con apparente casualità nella struttura tridimensionale barocca della formazione di immagini. Una considerata alternanza di pieno e vuoto acquistò peso pregnante nell’arte moderna dalla fine del secolo diciannovesimo anche per influenza dell’uso del vuoto nell’architettura e calligrafia giapponese da poco scoperte dagli europei.
Il vuoto è centrale nell’opera di Formenti. La sua arte funziona per alternanza non solo di volumi e spazi ma anche di leggibilità ed illeggibilità, di ironia scettica e afflato lirico, esserci e non esserci, in un zigzag eterno senza conclusione. Quando guardo un suo lavoro, mi tocca non guardare soltanto la parte tattile ma la mia percezione si arricchisce se mi getto alla caccia anche del negativo, di quello che non c’è.
I frammenti di parole che vengono riciclati in nuove fraseologie non sono tracce per portarmi a ricostruire le parole originarie dalle quali sono state estratte ma sono sensori che mi stimolano a cercare ulteriori sentieri visuali e verbali che fino a quel momento non immaginavo. Fra le pieghe della carta sono nascoste le pieghe del pensiero, a volte letteralmente, come quando una parola in primo piano si riflette in un’altra nascosta nell’ombra dell’alcova interna formata da quattro mura di carta.
Il collage è la vera rivoluzione artistica dell’epoca moderna. Non esiste opera che io non decodifichi senza la falsariga del suo concetto: metter questo insieme a quello produce quest’altro e le interpretazioni dell’opera non sono legate dall’artista anche se lei o lui vuole spiegarle, ma infinitamente aperte. L’opera di Formenti è l’estensione più estrema del concetto di collage: parte dalla giustapposizione di elementi incongrui e raggiunge il tempio della logica e dell’emozione. Che le piaccia o no, la sua operazione porta l’arte ad un campo sacrale.
Le inspiegabili piegature di Raffaella Formenti sono soltanto una delle sfacettature della sua attività proteica. Congiungere immagini, colori e tipografie succede nel suo universo in molte altre maniere, in libri composti nel computer e poi stampati digitalmente, in fotografie manipolate e ritoccate, in registrazioni video, perfino in messaggi sms sul cellulare di amici.
La piena della sua dilagante fantasia, chirurgicamente precisa e nel contempo sguinzagliata è contenibile quando si tratta di opere piatte o cibernetiche ma diventa un problema quando si tratta di costruzioni di carta. La sua casa ne è invasa. Il vuoto che in ciascuna è simbolizzato dalle delicate zone di ombra, quando si passa alla questione di magazzinaggio viene fagocitato dalla irreprimibile attività frenetica dell’artista. Il suo appartamento si sta saturando di costruzioni. C’è qualcosa di assolutamente romantico in questa impresa di pensiero visivo moltiplicato al mille. Esso simbolizza all’estremo il luogo dell’arte nella nostra società i cui detriti sono ricostruiti in grandiose cattedrali esimiamente inutili eppure indispensabili.
Lucio Pozzi 1/1/11
Without glue.
Lucio Pozzi
In the shady glossy folds of time.
1) FOLDS
If Raffaella Formenti drops by to visit, she may /
have strips of paper cut from some advertisements in her inner jacket pocket.
While chatting, without even looking, her hands get busy folding the papers and
fitting them together. This manual movement has become second nature, but it
also corresponds to a flexible, open system. Unlike what happens in an
operation based on completely or even generically pre-set parameters, like
weaving a rug, for example, Formenti starts with an initial mother structure
and then improvises, without knowing where it will end. It is like a sensor of
the available time and space. Like a tautological radar, it irradiates the
perceptible and mental zone she develops under her hands as they work. As a
technique, she has invented countless variations of a very personal origami
with which she makes things that range from small objects to creations
occupying entire rooms.
The glossy paper of advertising has a rigid yet
flexible consistency that allows her to fold it in simple formations that
become matrices of complex compositions. The measurements of the folds vary
infinitely and lead to a different effect each time. While in the Japanese
tradition of origami the folding of the paper is studied to generate
recognizable forms, like a stork, a bear, a house, a mask or a vase, Formenti’s
folds construct works of architecture that do not intentionally represent
images of phenomenal reality. They take form in real space and modify it with
their unavoidable presence.
Even a single small cube with one open side, formed by
a folded strip, occupies and absorbs the place in which it is put, so it can no
longer be overlooked once it has been placed there. Its weight, just a few
grams, transcends the proportion of its volume of fullness and emptiness. The
edges of the form are either solid or reveal themselves through the layering of
one fold over another. The glossy surface of the paper produces reflections of
opaque light that move as the observer moves. We should remember that this
object, the banal little cube of folded paper, for example, is an object that
has no intrinsic meanings. It irradiates innumerable meanings in a thousand
directions and layers of context.
2) COLORS
The papers Raffaella finds are used for advertisements
of all kinds. They can be torn from magazines or leftovers from a company that
does posters and billboards, Pubblix in Brescia, the city where Formenti lives
and has her studio. The stiffness of the paper varies, allowing the artist to
obtain vertebral constructions that can even extend in overhangs of exceptional
length.
The papers have colors chosen by the designers of the
advertising. The artist can choose to use just one, to produce an object
dominated by the hue of one poster, or she can mix multiple tones from
different papers to generate complicated three-dimensional mosaics.
With few exceptions, the chromatic effect is not
designed in detail, but springs of the inevitably random combination of the
folding of what she happens to grab, when one of the prepared fragments comes
into play. The aesthetic choices start at the beginning, already in the choice
of the sheet and the proportions of the cutout pieces. A strip five centimeters
wide produces different formations than one with a width of fifteen.
Significant differences arise, depending on which
fragment is used and at what point in the creative process it is introduced.
For example, an entire construct could be made by starting with just the
monochromatic left side – fluo yellow, for example – of three copies of the
same poster, while once the construction has begun the further additions could
instead be extracted from the central part, crowded with large black letters
against the same yellow background. This would lead to perceptible shifts of
color.
Formenti chooses the colors by taste and also to feel
that they are suited to the dimension she is seeking. Her color choice is both
random and intentional. It responds to the instinct of the painter who makes a
form correspond to a color without wasting time to explain the connection to
herself. Once, in a gallery in Desenzano del Garda, she chose to make an
immense floor-to-ceiling tower of yellows, reds and blacks, in contrast to the
institutional white of the rooms. She then added small satellite constructions
of a different nature. Some contained parts that could be moved or pulled out,
outlining mutable coincidences of color, form and legibility of the words.
3) WORDS
The associations that trigger Raffaella Formenti’s
constructions are not just architectural and chromatic, but also often reflect
the radical importance of typographical characters and letters.
Walking down a street with Raffaella causes an intense
heightening of the capacity to observe and to make connections. She does not
refrain from expressing her interpretation of what you see. She whispers or
announces these thoughts as you walk. The banal messages of fabric or appliance
stores are sliced, combined, jumbled in anagrams, or read vertically to make
them into conglomerates of totally unexpected sounds and meanings that suddenly
make the messages interesting. If you are seated at a bar, the passage of a van
with the name of a plumber or a laundry service might prompt her verbal twists.
Her mind never stops. Just imagine what happens when she gets to the newspapers
and magazines packed with semiotic conventions, whose archaeology cannot help
but plunge you into desperate ironic skepticism.
It’s in words, letters, phrases and messages that are
often empty yet sound important that the artist discovers the tragedy and humor
of life. She crosses the entire system of communication with the critical
filter of her gaze. Her mind itself is a sculpto-painting even an unsighted
person can perceive when it transforms into touchable castles of paper someone
can read aloud for their benefit.
Her works are fragile yet very solid: they don’t
collapse, at times you can even lean on them, though just one match can send
them up in smoke. This is one of the many branching contradictions on which her
art is based – symbolic contradictions of our entire life. We build grand
castles of thought and action, eroticism and sadness: each of our lives is a
very rich universe of hopes and memory, but a gust of wind can erase it
all.
4) VOIDS
Those capable of reading architecture know how to see
the void that is integrated with the fullness; those who listen to music know
the aesthetic pleasure of the silences that alternate with periods of sound.
The invention of the collage at the start of the 20th century triggered
reduced, flat forms, gathered in an apparently random way in the baroque
three-dimensional structure of the formation of images. A pondered alternation
of full and empty took on pregnant weight in modern art from the end of the
19th century, also through the influence of the use of emptiness in architecture
and Japanese calligraphy, recently discovered by Europeans.
The void is of central importance in Formenti’s work.
Her art functions by means of alternation not only of volumes and spaces but
also of legibility and illegibility, skeptical irony and lyrical inspiration,
being and non-being, in an eternal, endless zigzag. When I look at one of her
works I have to not only observe the tactile part; my perception is enriched if
I also go in search of the negative space, of what is not there.
The fragments of words that are recycled in new
phrases are not traces to help me reconstruct the original words from which
they were extracted, but sensors that stimulate me to seek other visual and
verbal paths I had not previously imagined. Amidst the folds of the paper the
folds of thought lie hidden, at times literally, as when a word in the
foreground is reflected in another hidden in the shadow of the inner alcove
formed by four walls of paper.
The collage is the true artistic revolution of the
modern era. No work exists that I can decode without moving along the lines of
its concept: putting one thing together with another produces something else,
and the interpretations of the work are not tied to the artist, though he or
she may want to explain them, but are infinitely open. Formenti’s work is the
most extreme extension of the concept of the collage: it starts with the
juxtaposition of incongruous elements and reaches the temple of logic and
emotion. Whether she likes it or not, her operation takes art to a sacred
field.
The inexplicable folds of Raffaella Formenti are but
one of the facets of her versatile activity. The combination of images, colors
and lettering happens in her universe in many other ways, in books assembled in
the computer and then digitally printed, in photographs that are manipulated
and retouched, in video recordings, even in text messages sent to the mobile
phones of friends.
The flood of her imagination, surgically precise and
at the same time unleashed, can be checked in the case of flat or cybernetic
works, but it becomes a problem in the case of the paper constructions. Her
house has been invaded by them. When the question of storage arises, the void
that in each of them is symbolized by the delicate shadow zones gets swallowed
up by the irrepressible frenetic activity of the artist. Her apartment is
packed with constructions. There is something utterly romantic about this feat
of endlessly multiplied visual thinking. It becomes the extreme symbol of the
place of art in our society, whose debris is reconstructed in grand cathedrals,
eminently useless yet indispensable.